Il futuro incerto del giornalismo nativo digitale

2 Gennaio 2018 • Digitale, In evidenza • by


Le aziende mediatiche native digitali hanno davanti a loro un futuro incerto: mentre il modello di business pubblicitario di Google e Facebook è fiorente, anche le testate digitali maggiori, che basano i loro introiti sulle ad online, devono affrontare diverse sfide. Novembre è stato un mese particolarmente difficile: Oath, che detiene brand come Huffington Post, Yahoo, TechCrunch e AOL, ha lasciato a casa altri 560 impiegati, mentre Mashable è stata venduta per soli 50 milioni di dollari, una cifra significativamente inferiore ai 250 milioni cui era stata valutata nel 2016.

Per molti, tuttavia, la cosa più scioccante è che BuzzFeed e Vice abbiano annunciato di aver mancato le proprie proiezioni di profitto per il 2017. BuzzFeed, in particolare, ha raggiunto un obiettivo inferiore alle aspettative del 15-20% e ha di conseguenza annunciato di prevedere un taglio di 100 posti di lavoro.

Dietro le quinte dei media d’informazione nativi digitali
Di fronte a questo scenario il Reuters Institute for the Study of Journalism ha pubblicato un nuovo report che esamina il difficile contesto in cui gli editori online sono costretti a operare. Lo studio prende in analisi sette diverse testate in Francia, Stati Uniti, Germania, Olanda e Uk. Basandosi su interviste con i Direttori e i dirigenti di HuffPost, Mashable, Vice, Quartz, de Correspondent, Brut e Business Insider, gli autori del report, Tom Nicholls, Nabeelah Shabbir e Rasmus Kleis Nielsen, hanno analizzano le strategie di business, distribuzione e pubblicazione di queste testate.

Lo studio rivela che “questi media, spesso facendo affidamento su venture capital o su finanziatori particolarmente abbienti, hanno seguito una strategia di espansione globale orientata verso un’iniziale crescita dell’audience, che avrebbe poi dovuto generare introiti pubblicitari”. Tutte le aziende prese in esame seguono una strategia di crescita che mira soprattutto al mercato statunitense e a qualche altro mercato aggiuntivo, contesti che sono per lo più democrazie ad alto reddito dove l’uso di Internet è diffuso e i media digitali detengono un’ampia quota del mercato pubblicitario.

Dati chiave
Un dato chiave riguarda la strategia di distribuzione dei contenuti delle rispettive organizzazioni. Il report mette in luce come molte di esse usino una combinazione di distribuzione on-site (quando il contenuto è pubblicato sul loro sito) e off-site (quando il contenuto è pubblicato attraverso una terza parte come le piattaforme social), abbinata a una Seo aggressiva e alla promozione dei contenuti sui social. L’obiettivo di tutti è conquistare un pubblico ampio in più Paesi con l’aiuto dei contenuti gratuiti. Come si legge nel report, però, quello della pubblicità display digitale, specialmente per i media fortemente votati all’internazionalità, è “un mercato sempre più difficile a causa del passaggio al mobile, della crescita della concorrenza delle grandi piattaforme e della diffusione degli ad-blocker. I modelli a pagamento o basati sulle membership sono invece ancora rari.

Inoltre, la maggior parte dei media d’informazione nativi digitali è ancora ferma alla fase di crescita e non fa ancora registrare profitti significativi. Infine, lo studio enfatizza le difficoltà dell’espansione in mercati diversi: le aziende devono infatti gestire la tensione fra “globalizzazione e localizzazione, devono decidere se creare delle collaborazioni o proseguire da sole, mantenere la coerenza del brand in diverse edizioni e lingue, a volte destinate a mercati differenti, e infine, devono anche affrontare le sfide poste dal coordinamento di redazioni globali”.

Che ruolo hanno i media nativi digitali nell’ecosistema mediatico?
Invece di vedersi come editori di nicchia che si rivolgono a un pubblico specifico, tutte le aziende prese in esame competono in termini di contenuto sia con i media tradizionali che con i media d’informazione nativi digitali con focus nazionale. Il report sottolinea che le sfide affrontate da HuffPost, Vice e gli altri brand analizzati sono simili a quelle di organizzazioni di carattere diverso. Anche loro devono pensare a come “sviluppare strategie editoriali, finanziarie e di distribuzione che permettano produzione sostenibile di notizie di qualità, magari anche profittevole, in un contesto mediatico sempre più digitale, mobile e dominato dalle piattaforme”. Queste aziende sono innovative? Così sembrerebbe. Ma stanno davvero reinventando il settore? Magari non proprio.

Quindi quali sono le principali forze e le maggiori debolezze dei media nativi digitali che si votano all’internazionalità? Secondo lo studio i loro punti forti includono “un’organizzazione più snella e degli obiettivi strategici più chiari, oltre a un’identità editoriale più forte rispetto ai media tradizionali”, e un “utilizzo più efficacie della tecnologia, sia in termini di piattaforme, sia in termini di strumenti interni per automatizzare e semplificare il lavoro”. Eppure, anche queste testate non sono immuni da difetti ben noti a tutto il settore del giornalismo online: la dipendenza dalla pubblicità digitale come principale fonte di profitto e dalle piattaforme, soprattutto Facebook, rappresentano ancora gravi rischi per la loro sopravvivenza.

In chiusura del report, Nicholls, Shabbir e Kleis Nielsen formulano anche una previsione che dovrebbe spaventare chi guarda alle testate native digitali con troppo entusiasmo: “la situazione generale dell’informazione digitale”, scrivono gli autori, “assomiglia a una bolla di contenuti digitali dove la maggior parte dei fornitori continua a operare in perdita […]. Questa bolla finirà per scoppiare a meno che non si trovino modelli di business più sostenibili e diversificati”.

Articolo tradotto dall’originale inglese da Giulia Quarta

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