Perché i giovani in Italia non sognano più e negli Usa continuano a farlo

Anche in America la crisi ha lasciato un'eredità psicologica pesante, ma la gente ha la capacità di reinventarsi (leggi: “cambiare lavoro”). Nessuno dei miei amici che erano stati licenziati ieri, oggi occupa lo stesso posto

Quasi il 61% dei giovani nel Sud Italia è disoccupato, il 46% su base nazionale. Sono dati che lasciano senza parole soprattutto se si considera che, queste cifre, sono raddoppiate negli ultimi sei anni. Gli anni della crisi, che dagli Stati Uniti è arrivata poi a tormentare l’Europa, devastando economie già precarie come quella spagnola, greca e italiana, sono tutti lì in quelle cifre difficili da commentare. Ieri, CNNMoney ha pubblicato un sondaggio sul “sogno americano” e, i risultati, lasciano altrettanto stupore se messi a confronto con una situazione come quella italiana. Per il 59%, il sogno americano non è più realizzabile e secondo il 63% dei giovani intervistati, di età compresa fra i 18 e i 34 anni, è addirittura impossibile. La maggioranza concorda sul fatto che per i giovani sarà difficile raggiungere degli obiettivi economici tali da “superare” la generazione dei propri genitori.

Secondo gli esperti, il risultato, frutto del pessimismo lasciato dalla crisi, la più devastante dalla Depressione, distorce una realtà che, invece, è ancora ampiamente positiva per la realizzazione dei propri obiettivi. A leggere i dati del sondaggio, ovviamente, si riscontrano, almeno nelle motivazioni, molte affinità con la situazione italiana: sconforto, pessimismo e, in alcuni casi, addirittura disperazione. Confrontando, però, gli indici di disoccupazione dei due paesi, ci si rende conto di trovarsi in mondi lontanissimi: in USA si viaggia sul 6,4% mentre l’ultimo dato italiano, a livello generale, è del 13,6%. Più del doppio. Quando Barack Obama, fu eletto presidente la disoccupazione aveva superato il 10%, un dato che faceva tremare i polsi ad un paese poco abituato a numeri a due cifre in questo ambito.

L’economia divenne il tema del giorno nell’agenda presidenziale, scalzando il primato avuto, dopo l’11 settembre, dal terrorismo e dalla sicurezza nazionale. Con il 6,4%, tuttavia, gli americani sono scontenti e i giovani si sentono insicuri. Se è comprensibile il loro stato d’animo, cosa deve passare allora per la testa dei nostri ragazzi che sembrano destinati a non avere un futuro lavorativo? Va aggiunto che, sebbene se ne parli poco, il dramma attuale diventa sale su una ferita aperta se si pensa che, prima di queste, ci sono già “generazioni di invisibili”, oggi quarantenni, che non hanno mai trovato un lavoro stabile e se la sono “cavata” con lavori interinali e a tempo.

Quando sono arrivata a New York, nel 2007, la città mostrava chiaramente tutti i segni della crisi: negozi e attività che calavano la saracinesca, affitti che crollavano, case che si svuotavano per pignoramenti e gente che perdeva il lavoro ogni giorno. Nel giro di un anno, 8 su 10 fra i miei conoscenti erano stati: licenziati o trasferiti in altre sedi. Avevano età, esperienze e gradi diversi: dal dirigente all’impiegato di banca. Oggi lavorano tutti. Proprio qualche giorno fa, a conferma della ripresa, il governatore Cuomo ha detto che con il 6,7% di disoccupazione, lo Stato di NY tocca il suo miglior risultato degli ultimi cinque anni. Nessuno fra quelli che conoscevo, però, ha continuato a fare lo stesso lavoro. Nessuno. E la maggior parte ha iniziato attività in proprio, spesso assolutamente diverse dal lavoro originario.

Perché la speranza e la positività che ancora, nonostante tutto, sorreggono e caratterizzano questo paese, si basano su alcuni elementi che da noi sono assolutamente e tristemente assenti: a) la meritocrazia, intesa come il fatto che chi ottiene un lavoro è il migliore in quel ruolo. Le “raccomandazioni” nel senso italiano del termine, sono minime e questo garantisce due risultati: mantiene l’ottimismo e fa si che le menti migliori siano messe nei posti giusti con evidenti benefici per l’economia; b) la flessibilità, non del datore di lavoro ma dell’individuo che, anche in tempi “non di crisi” non pensa quasi mai a se stesso come legato, a vita, alla stessa professione. Per gli americani il reinventarsi, cambiare, mettere a soqquadro la propria vita è segno positivo e, quasi mai, negativo; c) l’età, in un paese in cui è vietato chiedere (o inviare) curriculum che contengano dati anagrafici, è più difficile sentirsi “vecchi”, soprattutto senza mai essere stati giovani. Da noi, purtroppo, si passa dall’essere “troppo giovani e inesperti” all’essere “troppo vecchi e troppo specializzati”.

Melissa Tavss ha 25 anni e si occupa di pubbliche relazioni e studia per il suo master: da circa un anno, dopo aver iniziato quasi per gioco, porta avanti un’attività: Tipsy Scoop, ovvero il gelato alcolico. Da sola, Melissa, è diventata, una piccola imprenditrice e se parlate con lei, il sondaggio della CNN è una sciocchezza e il sogno americano è sempre la parte migliore di questo paese.