Come 'buonista' è diventato l’insulto preferito degli italiani

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Come 'buonista' è diventato l’insulto preferito degli italiani

E 'buonismo' un vocabolo che nel suo dire tutto non vuol dire assolutamente niente, ma che è capace di chiudere ogni dialogo.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Il linguaggio della politica italiana ha una dote speciale: quella di inventare a getto continuo espressioni insolite. Tra "patti" estemporanei (quello della "crostata" o del "Nazareno"), nomignoli vaghi (tipo la "Cosa Rossa" o "lenzuolate") e latinorum abborracciato (qualche settimana fa i giornali aprivano sul "Rosatellum", ricordate? No, vero?), spesso e volentieri i lemmi vengono bruciati nell'arco di pochissimo tempo.

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A volte, però, succede che certe parole restino e dilaghino in ogni dove. Su tutte, negli ultimi anni c'è stata una coppia di termini ha attecchito in modo impressionante nel dibattito pubblico: "buonismo" e "buonista."

Non passa praticamente un'ora—neanche un giorno: un'ora—senza ritrovarsela in un qualche articolo, conversazione, status o commento. Per rendersene conto basta prendere come campione l'ultima settimana di cronaca.

L'albergatore di Reggio Emilia che non assume un cameriere per il semplice motivo che quest'ultimo è nero? Ha fatto bene, perché "è tempo di dire basta a questo strisciante buonismo." Povia che fa una canzone xenofoba? Macché, è solo un "grido" disperato contro i "buonisti." Lo scrittore Mauro Corona che vuole inseguire i vandali con un'ascia in mano? Ottimo, così facendo "sfascia il buonismo radical chic." Gli atleti italiani che vincono l'oro nel sincro ai mondiali di Budapest con un'esibizione dedicata ai migranti? Non sono altro che maledetti "buonisti." Le indagini sulle ONG? Uno schiaffo ai buonisti. E così via.

L'onnipresenza, tuttavia, è inversamente proporzionale alla comprensibilità del termine. Certo, i vocabolari ne danno alcune definizioni (come "ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversarî"); eppure, l'uso estenstivo che se ne fa oggi ricomprende tutto—e quindi, be', non ricomprende un bel niente.

Il "buonismo," pertanto, si muove in una dimensione a sé stante: può essere al contempo una "dittatura," o una stretta di mano tra due piloti di Formula 1. Lo stesso discorso si applica al "buonista," indistinta categoria antropologica in cui far rientrare davvero chiunque. Anche Babbo Natale, colpevole di aver trasformato le sacre festività in un'orgia ipocrita di buoni sentimenti utile solo a spingere i consumi.

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A ben vedere, però, il successo del termine deriva da una circostanza piuttosto intuitiva: quella intorno al "buonismo" è una delle poche battaglie culturali che le destre e i reazionari d'Italia hanno stravinto, e con la quale sono riusciti a condizionare l'intero spettro politico—comprese quelle parti che, nel vano tentativo di scrollarsi di dosso lo stigma, lo hanno a loro volta abbracciato (benvenuto nel coro, Matteo Renzi!).

Ma come ha fatto una parola a diventare così egemonica? Come si è arrivati a questo punto? Per quanto esistano antecedenti storici e linguistici piuttosto diretti—il "pietismo" dell'epoca fascista—l'origine del "buonismo" è relativamente recente ed è connaturata all'avvento della Seconda Repubblica.

Come afferma il linguista Giuseppe Antonelli nel saggio Volgare eloquenza, "la crisi dei partiti tradizionali è stata prima di tutto una crisi linguistica." Per cercare di rimanere agganciati al treno della novità, in poco tempo si è dunque passati dalla lingua "artificialmente alta" della Prima Repubblica (il cosiddetto politichese) a una lingua "altrettanto artificialmente bassa: […] basica, elementare, grossolana. Apparentemente chiara, in realtà vuota, dal momento che si limita a ignorare o banalizzare le complesse questioni cui dovrebbe far fronte." E sebbene "lo spazio delle parole [si sia] ampliato a dismisura"—grazie soprattutto ai mass media e alla "videopolitica"—alla fine sono rimaste solo quelle "d'ordine (o di disordine) ripetute all'infinito, riprese a voce sempre più alta per coprire la voce di chi in quelle parole non si riconosce."

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I primi riferimenti al "buonismo" sono calati in un contesto di radicale trasformazione. Tuttavia, almeno all'inizio degli anni Novanta, il significato è molto circoscritto. In un articolo del 2000 che ne ricostruisce la genesi, il termine da una lato definisce chi ostenta la bontà e ne fa "un'esibizione sistematica a proprio vantaggio"; e dall'altro vuole prendere in giro "quella sinistra alla Veltroni un po' melensa, sentimentale, a volta infantilmente amante di figurine e giochi."

A farvi ricorso c'è anche l'editorialista del Corriere Ernesto Galli della Loggia, che in un editoriale del 1995 (intitolato "Chi non vede gli immigrati. La solidarietà 'buonista' del centrosinistra") accusa la sinistra di non saper gestire l'immigrazione a causa del suo "buonismo" e "benaltrismo." Si tratta di uno slittamento semantico non da poco: dallo sberleffo di un certo "comportamento tollerante" in politica, sostiene il docente di storia della lingua italiana Federico Faloppa, il termine passa a indicare—con connotazioni fortemente spregiative—"idee e atteggiamenti (di sinistra) ritenuti (da destra) vaghi e ipocriti in relazione ai fenomeni migratori."

L'ampliamento permette al neologismo non solo di sopravvivere, ma di travalicare ogni tipo di confine. La consacrazione arriva nel 1998, prima con una puntata speciale del Maurizio Costanzo Show ("Gli italiani sono buoni o più semplicemente buonisti?") e poi con l'inserimento nel vocabolario della Treccani. Da lì non si torna più indietro.

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Lo sdoganamento al grande pubblico—e soprattutto la penetrazione nel senso comune—causano le prime, come chiamarle?, contro-reazioni. Ossia: chi viene tacciato di "buonismo," o si riconosce in alcuni valori bollati come "buonisti," inizia a respingere l'etichetta. All'inizio degli anni Duemila, su La Stampa, Lietta Tornabuoni scrive che "nel linguaggio della gente esasperata, reazionaria o divenuta tale per paura e sfiducia, buonista condensa una miriade di idee e comportamenti non conservatori, non violenti." In realtà, continua, "il disprezzo del buonismo maschera le solite, eterne idee e idiosincrasie della vecchia destra, stavolta sostenute pure da parecchi intellettuali desiderosi di mostrarsi controcorrente, liberi e birichini."

Nel 2005, su Repubblica, il giornalista Giovanni Maria Bellu argomenta che "buonismo" ha assunto un significato sempre meno "buonista"; anzi, è diventato "il nuovo olio di ricino dello squadrismo mediatico shakerato con un po' di analfabetismo civile," nonché "il nuovo manganello col quale si menano i richiami alle norme costituzionali e anche all'umana pietà."

A quest'ultimo proposito, non possono che tornare in mente due copertine de Il Giornale che hanno dilatato il termine fino all'estremo. Si riferiscono a stragi di migranti nel Mediterraneo—la prima a Lampedusa nel 2013 (più di 300 morti), la seconda al largo della Libia nell'aprile del 2015 (oltre 700 morti). Il colpevole, ça va sans dire, è il solito "buonismo."

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Chiaramente, un'argomentazione—chiamiamola così—del genere non ha alcun senso. O meglio, l'unico senso è il seguente: obliterare le circostanze fattuali (tra cui i rimpalli letale nei soccorsi; o, più generale, il disimpegno degli Stati europei e la politica di chiusura delle frontiere), e rimpiazzarle con una fallacia logica grossa quanto dieci grattacieli uno sopra l'altro.

"Settecento morti di buonismo": cosa si può dire, o solo pensare, di fronte ad un'affermazione del genere?

Risposta: Assolutamente nulla. E infatti, dice ancora Faloppo, negli ultimi anni il "buonismo" ha assunto i connotati di un'arma finale "dopo la quale nessun discorso è possibile, nessuna opinione discutibile, nessuna difesa allestibile da chi ne viene colpito." O, come ha scritto Roberto Saviano, è diventato "una specie di scudo contro qualsiasi pensiero ragionevole, contro qualsiasi riflessione in grado di andare oltre il raglio della rabbia e la superficialità del commento. Qualsiasi cosa non sia circoscritta nel perimetro dell'insulto o che abbia il marchio del sarcasmo diventa buonismo."

Lo stesso, inoltre, ha anche proposto l'abolizione tout court del termine. Altri hanno proposto di controbattere l'abuso del "buonismo" rispondendo per le rime—cioè "riequilibrando" il dibattito con lemmi antitetici quali "cattivismo"—o direttamente rivendicandoselo.

Il problema insito in queste proposte di "depurazione" del linguaggio è che non escono dal perimetro imposto da chi fa uso del termine. Dopotutto, in politica vince chi "costringe gli avversari a giocare sul proprio terreno."

Piuttosto, e qui sono d'accordo con Faloppo, si tratta di rovesciare il banco e "de-costruire un linguaggio viziato per svelarne le fallacie, la fragilità, l'inconsistenza." Insomma: "rendere adulto il dibattito" ricorrendo al realismo politico. Per tornare su un tema che tiene banco da mesi, salvare vite umane in mare non è un capriccio "buonista" o un complotto ordito da "lobby buoniste" che voglio lucrarci sopra; è l'assolvimento di obblighi internazionali, che in questo preciso momento storico si inseriscono in un quadro geopolitico complesso.

Ad avere una posizione fuori dalla realtà, insomma, è chi parla di "buonismo" credendosi "anticonformista" o il detentore di chissà quale verità nascosta.

Quindi, per dirla con parole lievemente più potabili: quando in una discussione compaiono i termini "buonismo" e "buonista," allora quasi certamente sta per arrivare un'enorme stronzata da schivare a tutti i costi.

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