La morte di Libero De Rienzo, a 44 anni, priva il cinema italiano di uno dei suoi outsiders più amati e originali, di un attore che si è mosso sempre sfiorando il grande successo di critica e pubblico, la dimensione nazional popolare senza mai agguantarla veramente. Purtroppo o forse per fortuna. Napoletano, un’espressività sotto le righe di irresistibile simpatia e umanità, capace di stregare con un solo sguardo, diventò nel 2001 simbolo generazionale grazie a quel piccolo capolavoro intitolato Santa Maradona, diretto da Marco Ponti.

Ambientato nella Torino pre-Olimpiade, sabauda e monotona, vedeva come protagonisti due sgangherati e confusi amici alla fine dei loro vent’anni: Andrea (Stefano Accorsi) e lui, Bartolomeo “Bart”, che permise a De Rienzo di mettere in mostra tutta la sua verve e presenza scenica.

Rabbiosi, confusi, indolenti, implosi esistenzialmente, rigidi e allo stesso tempo sognatori, passano il tempo tra furtarelli inutili, tentativi falliti di trovare un lavoro e una sorta di confusione esistenziale indefinita.

Film atipico, né commedia né dramma, film di formazione anarchico eppure realistico, Santa Maradona ha avuto in Bart, uno dei simboli per eccellenza della generazione millennial, in grado di anticiparne impotenza, lo sprecare le energie in una meravigliosa deriva tra il disperato e il narcisista.

Ancora oggi, è forse uno dei film più onesti e sinceri sull’impossibilità di realizzarsi in questo paese seguendo le regole, sul rifiuto della realtà che ci circonda, sul riscrivere le priorità della vita.


Troppo cari questi libri

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Tra i momenti più assurdi e divertenti del duo, vi è sicuramente la disquisizione in merito al valore della cultura e dei libri, in cui Andrea e Bart affrontano il tema dell’industria editoriale italiana.

A modo loro s’intende. Bart, critico letterario falso come i best sellers che odia (si fa mandare le recensioni da pubblicare da un cugino siciliano), sfoga il proprio odio per le mode letterarie, per i miseri contenuti dei “grandi autori” venduti un tanto al chilo su una povera cliente ignara di essere di fronte a due artisti del caos. Appena finito di distruggerla, con coerente incoerenza, rubano i libri che avevano adocchiato (troppo cari secondo loro) e scappano dal negozio, per poi regalarseli girato l’angolo.

La scena è perfetta per farci comprendere lo spirito a metà tra ribellione e sberleffo ipocrita di Bart, questo suo muoversi tra le righe, in cui l’insofferenza per il mondo che lo circonda, copre in realtà il malcelato desiderio di far parte di quella società arrivista che in teoria disprezza.

Odia le eccellenze di maniera, odia le etichette, rivendica non il genio, che comporta ammirazione perché immagine del conformismo, ma (come dice lui) la sregolatezza pura, fatta di istinto ed intuito, non ragionata né raffinata. A modo suo, un elogio della libertà individuale più estrema che lui rappresenta.


L’amore è una scureggia nel cuore



Spirito libero e intuitivo Bart, capace di guardare con filosofico distacco la realtà e per questo compagno perfetto del più viscerale e instabile Andrea, in questo dialogo si dimostra capace di andare alla radice delle cose, di non farsi distrarre dall’emotività quando essa è una trappola. Eccolo quindi spiegare all’amico, perché la sua gelosia verso la bella Dolores (Anita Caprioli), “colpevole” per essere andata a letto in passato con un regista per pura convenienza, sia una distrazione inutile.

Per spiegarlo, si inventa un viaggio mai avvenuto in treno, l’immagine di un vecchietto che dipingeva un camion in pace con il mondo, distrutta da quella frase scribacchiata sul finestrino: “l’amore è una scureggia nel cuore”. Tutto dipende dal nostro punto di vista, ci spiega Bart, ma perché il nostro è migliore di quello di chi abbiamo di fronte? Chi lo dice che la gelosia di Andrea sia non solo giustificata, ma che valga anche qualcosa di fronte alla realtà inoppugnabile: Dolores è meravigliosa, non vale la pena perderla per una sciocchezza del genere. Alle obbiezioni di Andrea, circa la mancanza di controllo di questa relazione, Bart ribatte con l’amara realtà: non hanno alcun controllo, è il mondo che lo ha, ed il mondo va sempre più in fretta. Non possono decidere la velocità e la direzione del loro viaggio, solo cercare di prendere ciò che veramente vale durante il tragitto e Dolores è una di quelle cose che non va persa. Quante volte siamo stati nei panni di Andrea e abbiamo commesso quell’errore? Purtroppo non avevamo uno come Bart a mostrarci la verità.


La paura di vivere


Alla fine arriva bene o male anche una resa dei conti tra i due amici e coinquilini. Andrea ha fatto naufragare la storia con Dolores per la sua gelosia e paura di mettersi in gioco, mentre fallisce un colloquio dopo l’altro per lavori che odia. Cerca un confronto-scontro con Bart, che ai suoi occhi appare un perdigiorno, un “uomo-accappatoio” con cui non si può mai fare un discorso serio, che non prova mai come lui a dare una svolta alla sua vita, completamente passivo.

Ma Bart, il solito geniale Bart, gli ricorda che no, la realtà è che la sua è solo una recita, il vero vigliacco è lui, che va ai colloqui senza la vera intenzione di passarli, di modo da darsi un alibi per la sua immobilità, è lui che ha mandato all’aria una storia d’amore per paura di mettersi in gioco e prendersi della responsabilità.

Ed è sempre lui che non ammette i propri errori, l’aver maltrattato Dolores, averle fatto del male, mentre fa finta che tutto questo non gli vada bene. Bart se non altro è coerente nel suo rifiutare lo stile di vita borghese a cui fa finta di voler aspirare Andrea. In quello scontro, in quel feroce attacco alle bugie, vi è una delle più grandi prove di amicizia e fedeltà all’amico che il cinema italiano degli ultimi vent’anni ci abbia proposto. Il problema, il vero problema di noi trentenni di oggi, alle prese con la nostra paura, i nostri fallimenti, è di non aver un amico come Bart, in grado di scuoterci e rimuovere il vittimismo autoassolutorio da cui nasce la nostra infelicità.


Sparare con precisione



Da buon tuttologo tuttofare, cinefilo consumato e filosofo in erba, Bart sceglie una metafora grandiosa per parlarci dell’ansia che si appropria della vita, dell’incapacità di vedere le proprie priorità, di distinguerle e agguantarle a mano a mano che si cresce.
Nei film di una volta si sparava e il nemico moriva. Pulito, lineare e semplice. Oggi invece, in film come Salvate il Soldato Ryan, si muore dopo giorni magari, dopo essere stati crivellato di colpi.

Conclusione di Bart: la mira è peggiorata nel cinema andando avanti, non trovi più gente come Clint Eastwood che ti mandava all’altro mondo con un colpo di colt. Ecco, per Andrea, per noi nell’anno 2021 come nel 2001, il problema è lo stesso: siamo convinti che la vita più va avanti e più è complicata.

Ma non è vero, è un’illusione o una scusa al limite, per giustificare la nostra scarsa mira, il nostro rimanere indifesi di fronte a quegli stimoli esterni, borghesi e superficiali, che solo poco tempo prima per noi non valevano niente. L’iperattività non è operosità, l’ambizione non sono i sogni e di certo “ravanare nel porcile”, come ci spiega Bart, non risolve il nostro problema: l’aver perso l’intuito che ci permetteva di capire cosa volevamo e cosa no.


La risposta senza la domanda

Nel bel mezzo di uno dei tanti dialoghi con Lucia, Bart approfitta di una semplice domanda sul fumo, sul perché lui non fumi (non può farlo al cinema e vedere un film in sala senza fumare non è accettabile) per parlarci dell’incompiutezza dell’essere.

Lucia (che si ostina a chiamarlo Bartolomeo invece di Bart) gli ha fatto quella domanda, che da tempo aspettava e realizzare questa piccola ambizione personale, ed in effetti è curioso, confessa, perché evidenzia un’incompiutezza esistenziale.

Il che poi è il tema portante di Santa Maradona, di quella Mano de Dios che serve nella vita per sopravvivere, per farcela, visto che seguendo i binari preimpostati dagli altri è impossibile.

Se nessuno ti fa la domanda che aspetti, ti dà il modo di esprimere ciò che hai dentro, l’unica è cercare la persona giusta in eterno, oppure far sì che accada in qualche modo, perché è veramente terribile sentirsi depositari della verità o di una verità e non aver modo di parlarne.

Nel suo microcosmo di episodio risibile, di tentativo anche di seduzione verso Lucia se si vuole, vi è il simbolismo di un male di vivere, ed assieme anche l’essenza di questo personaggio, sorta di Diogene moderno, a metà tra il cinico e il sognatore. Sono passati vent’anni eppure la domanda a lui, come a noi, quella giusta, nessuno l’ha fatta, ed è uno dei tanti motivi per cui Bart è e rimane forse il simbolo più puro e più vero di cosa sia avere trent’anni in questo paese.

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MIKADO