Quando i toscani sconfissero la peste nera

Dopo l'epidemia del '300 ci fu una rapida ripresa economica e nacquero strategie sanitarie più moderne

Giovanni di Paolo, "Allegoria della peste", Tavoletta di biccherna, 1437

Giovanni di Paolo, "Allegoria della peste", Tavoletta di biccherna, 1437

Firenze, 1 marzo 2020 - Ai fiorentini e, più in generale, ai toscani di inizio Trecento le cose non erano mai andate così bene. Godevano i frutti di un lunghissimo periodo di sviluppo economico e demografico iniziato tre secoli prima, che aveva coinvolto tutta l’Europa e di cui erano primattori. Un periodo di crescita senza precedenti e che sembrava non dover finire mai. Poi, tra il 1347 e il 1350 arrivò la peste. La Peste nera, che uccise quasi un terzo della popolazione. Fu un fulmine a ciel sereno? Probabilmente no. Si creda o meno alla tesi della “piccola era glaciale”, il deterioramento del clima influì sui raccolti aprendo la strada a carestie ricorrenti.

Per stabilire un rapporto diretto tra carestie ed epidemie sarebbe necessario ricostruire una loro puntuale cronologia, un lavoro che ancora gli storici non hanno concluso. Ma le cronache mostrano come carestie ed epidemie seguissero a irregolarità meteorologiche. Certamente pesarono anche la Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra e il conseguente fallimento delle grandi compagnie mercantili-bancarie fiorentine. Oltre alla virulenza della malattia. Fatto sta che quando alla fine del settembre 1347 il Pasteurella Pestis giunse a Messina, su imbarcazioni genovesi provenienti da Caffa, le condizioni per la sua diffusione, attraverso pulci e ratti, erano molto favorevoli, visto anche il bassissimo livello igienico in cui viveva la popolazione.

Alla fine del giugno 1348 l’intera Penisola era stata invasa dal morbo. Un po’ enigmaticamente Milano fu risparmiata (la storia non si ripete!). Non furono soltanto i provvedimenti restrittivi voluti dai Visconti a ostacolare il diffondersi del contagio, ma anche l’interruzione dei traffici verso Mantova a causa della guerra con i Gonzaga, l’assenza in città dell’esercito, eccellente veicolo di epidemie, e la bassa possibilità di contrarre la malattia dai topi perché il Naviglio, l’unico corso d’acqua ad essi accessibile, era coperto e fuori dalla cinta muraria. In ogni caso la società tutta era impreparata ad affrontare la malattia di cui non si conoscevano le cause.

Fenomeni astrali, meteorologici o tellurici erano i virus, i batteri e i bacilli del tempo. L’impotenza delle terapie mediche di fronte al morbo fu motivo di angoscia anche per gli stessi medici. Si aveva però la consapevolezza che gli assembramenti di persone favorissero il diffondersi della malattia. Pertanto senza disporre di cure efficaci, le amministrazioni statali e cittadine cercarono di intervenire in qualche modo.

A Firenze il Capitano del Popolo vietò ai fiorentini il contatto con pisani e genovesi e di vendere oggetti appartenuti agli appestati. A Venezia il Maggior Consiglio designò tre sapienti “pro conservatione sanitatis”, proibendo l’ingresso in città prima agli stranieri e poi agli stessi veneziani. A Milano nel 1350, quando sembra sia arrivato il contagio, fu messo a punto un rigido cordone sanitario. Così, per rispondere alle successive ondate di pestilenza, l’efficiente tradizione amministrativa degli stati italiani del Rinascimento portò allo sviluppo di una organizzazione sanitaria che per l’Europa del tempo era all’avanguardia.

Nacquero, infatti, gli Uffici di Sanità presenti con dimensioni diverse, ma funzioni più o meno simili, nelle città più grandi come nelle località minori. Non possiamo, però, negare come la loro azione trovasse qualche ostacolo. Allora come oggi, non era facile decidere sull’applicazione di provvedimenti poco popolari, come l’imposizione di un cordone sanitario, una quarantena o misure che comunque limitavano la libera circolazione di merci e persone. Esse comportavano perdite consistenti non solo per i privati ma anche per le finanze statali.

La fine della peste nera fu seguita da una rapida ripresa economica. La seconda metà del Trecento vide la nascita della banca moderna, con i suoi strumenti: il conto corrente di corrispondenza, l’assegno bancario e la lettera di cambio. Ci fu l’ulteriore dilatazione dei traffici commerciali che favorirono fenomeni di contaminazione economica e culturale di cui si nutrì lo stesso Rinascimento. Oggi che cosa accadrà dopo l’emergenza Covid-19? Secondo gli analisti economici esso ha “infettato” l’economia e, se non sbagliano previsioni, il Pil italiano potrebbe scendere tra l’1 e il 3% cumulato nei primi due trimestri del 2019 (REF Ricerche).

Potremmo pensare che la peste trecentesca sia stata una grande livellatrice, perché colpì indifferentemente ricchi e poveri. In realtà, chi poteva fuggiva. Scappava da città densamente abitate dove il contagio era più facile. Ma lasciare i centri urbani costava: occorreva denaro e, dunque, solo i benestanti potevano avere una possibilità di salvezza. Nel mondo globalizzato, scappare dal Covid-19 è sostanzialmente inutile.

Oggi la medicina e le conoscenze scientifiche consentono nella maggioranza dei casi di guarire e per fortuna, perché la nostra società non ha la stessa familiarità con la tragedia e la morte che avevano gli uomini del Medioevo, rassegnati al volere di Dio a cui attribuivano intera e imperscrutabile volontà.

Angela Orlandi è docente al Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa Università di Firenze